La conversazione è feconda soltanto fra spiriti dediti a consolidare i propri dubbi, diceva il saggista Emil Cioran. Perché il dubbio siede a metà tra cuore e ragione, e cresce di pari passo con il desiderio di conoscenza. 

Il dialogo è fondamentale, ma condividere è necessario: e mai come ora, i legami tra le istituzioni, la circolazione delle idee, la varietà del pubblico che visita le mostre, la diffusione del pensiero degli artisti alla platea più vasta possibile – ma con il minor impatto in termini di spedizioni e viaggi in conseguenza dell’emergenza sanitaria – costituiscono le sole modalità capaci di rendere contemporanea un’istituzione culturale. 

Realizzare e far crescere la consapevolezza, in un momento in cui ci sentiamo fragili più che mai, è la base e l’obiettivo di una collaborazione senza precedenti fra Triennale Milano e Fondation Cartier pour l’art contemporain, che inizierà con l’edizione milanese della mostra di Claudia Andujar (La lotta Yanomani, in programma dal 17 ottobre al 7 febbraio 2021) e continuerà per otto anni.

Fin dalla sua creazione, nel 1984, la Fondation Cartier pour l’art contemporain si è distinta come un esempio innovativo di mecenatismo d’impresa. Spazio di creazione per gli artisti e luogo d’incontro fra l’arte e il grande pubblico, la sua vocazione è favorire la creazione contemporanea e diffonderne la conoscenza. Sostenendo l’arte per la sua capacità di dare voce alle preoccupazioni – e ai dubbi – del mondo moderno e rendendola accessibile al pubblico, Cartier esprime la filosofia di un’azienda attenta alla scena creativa.

AD e Cartier condividono i valori della cultura, della bellezza, dell’arte, del design, dell’innovazione e dell’artigianalità. In questa conversazione, Luca Dini (Editor in Chief AD & Editor Director Condé Nast Italia) Grazia Quaroni (Direttrice delle collezioni di Fondation Cartier) e Lorenza Baroncelli (direttore artistico alla Triennale di Milano), si sono interrogati sui temi e sui valori connessi con il mondo dell’arte contemporanea, usando come cardine un concetto che va oltre il suo significato letterale: curare. Come la rosa di Antoine de Saint-Exupery, che diventa importante perché il Piccolo Principe le ha dedicato tutto il suo tempo. 

 

«La partnership tra Fondazione Cartier e Triennale», ha esordito Grazia Quaroni, «nasce sulla base di collaborazioni passate. Eravamo già in un clima di dialogo e di scambio culturale da tempo con progetti molto diversi. Questo partenariato, d’altra parte, ha una formula unica perché si sviluppa su un periodo lungo, otto anni: una circostanza che ci porta a riflettere non solo sul presente, ma sulla direzione del mondo del domani. È la rappresentazione concreta di un modello di pensiero europeo».

In un momento come quello attuale anche piuttosto difficoltoso, quanto sono importanti questo tipo di collaborazioni che coinvolgono pubblico e privato?

Quaroni: «Oggi più che mai il ruolo dell’istituzione culturale è fondamentale, perché assume la funzione di spazio per lo scambio di idee che riescono a scavalcare le restrizioni geografiche imposte da questo periodo di grande difficoltà. La nostra partnership si rivela quindi particolarmente utile per ridestare un quadro culturale che ha bisogno di nuove modalità di condivisione».

Baroncelli: «E inoltre, in prospettiva, ci appare come unico modello sostenibile per la cultura. Stiamo andando in direzione di un futuro che non conosciamo e dobbiamo trovare soluzioni nuove. Mettere insieme modelli di pensiero, di gestione e di costruzione del futuro è l’unica strada che consente alle istituzioni culturali di guardare avanti».

Che cosa significa fare il direttore artistico di una grande istituzione o il direttore di una collezione? Che cosa comporta?

Baroncelli: «In linea generale, sebbene i nostri lavori siano molto diversi, abbiamo in comune un’attività: curare le mostre. Il termine curare oggi è molto di moda e ha ampliato il suo significato: è qualcosa che concerne molto l’epoca che stiamo vivendo, un’epoca che produce sempre più dati, sempre più contenuti, più oggetti. Il ruolo di un curatore, di un direttore artistico, è quello di selezionare, prendersi cura, conservare, selezionare e offrire al pubblico una lettura che riduce la quantità di elementi che esistono in una narrazione. Come direbbe Alighiero Boetti, curare una mostra è come disegnare una mappa». 

Quaroni: «A me piace pensare che il curatore sia una specie di ponte fra gli artisti e il pubblico. Come curatori abbiamo l’enorme privilegio di frequentare gli artisti anche nel momento della creazione di un’opera. Ma abbiamo anche la responsabilità nei confronti di un vasto pubblico al quale dobbiamo spianare la strada traducendo il messaggio dell’artista in maniera chiara, semplice ed essenziale».

C’è un aspetto nascosto del vostro lavoro? 

Quaroni: «C’è un retroscena legato alla conservazione di una collezione che porta il curatore ad acquisire competenze su un insieme sterminato di campi. Ma queste operazioni sono importanti perché capire il lato fisico dell’opera serve a costruirne il senso, a capire come l’artista l’ha concepita. E permette di sviluppare un pensiero globale, che poi diventa programmatico, anche sulle mostre che verranno».

Baroncelli: «Un’istituzione come Triennale costruisce rapporti a tutti i livelli. È una macchina complessa, che funziona solo se i tanti attori della combinazione dialogano fra loro. Questo è uno dei motivi per cui la collaborazione tra Fondazione Cartier e Triennale non poteva che essere a lungo termine, poiché la sua narrazione non può essere vista nell’ambito di un unico esperimento, un’unica mostra, ma deve essere la somma di un percorso che si costruisce insieme e che va anche oltre i passaggi politici, i cambi di gestione». 

Come si arriva a essere dove siete voi? Esiste una scuola? Quando è stato il momento in cui avete capito che poteva essere questa la vostra strada?

Quaroni: «Quando ho cominciato io, il mestiere quasi non esisteva. Il concetto di curatore è emerso in Francia, dove ho avuto la fortuna di ritrovarmi. Ma oggi per i giovani ci sono molte opportunità: le università offrono master di studi curatoriali che sono il punto di partenza per acquisire esperienza nel mestiere. Inoltre, le istituzioni e i musei possono instradare molti giovani».

Baroncelli: «Io non vengo da una formazione specifica. Mentre ero assessore alla rigenerazione urbana del comune di Mantova sono stata coinvolta dal presidente Boeri per lavorare in Triennale. In realtà questi mondi che sembrano apparentemente lontani sono molto simili, perché il punto più importante è la gestione delle situazioni complesse. Per esempio, con il Covid ci siamo resi conto che le Istituzioni culturali devono cambiare: dobbiamo immaginare una transizione verso il digitale e un nuovo modo per interagire con il pubblico. Niente di questo viene insegnato a scuola».

 

E a un giovane che aspirasse a provare questa strada che cosa consigliereste? Quali sono le capacità che una persona deve essere consapevole di aver raggiunto?

Quaroni: «Come prima cosa deve vedere tante mostre, tanta arte. Poi deve essere in grado di sviluppare un rapporto speciale con l’artista, che sia funzionale alla chiarezza del messaggio che trasmette. Bisogna essere capaci di entrare nell’opera in maniera molto profonda».

Baroncelli: «Condivido. Non basta attaccare una banana al muro per essere Maurizio Cattelan. Serve studio, dedizione, curiosità e intuito. Inoltre, bisogna essere in grado di porsi una domanda: che cosa accadrà fra cinque anni? Bisogna precorrere il tempo, immaginare la contemporaneità di domani». 

Quaroni: «Però non possiamo immaginare il futuro da soli. Dobbiamo circondarci di saperi di diversissima natura: filosofi, scienziati, matematici… Questa è un’attività che la Fondazione Cartier mette in pratica da sempre, avvalendosi di un network di conoscenze che diventa cruciale per costruire un discorso comune».

Baroncelli: «Sono d’accordo. Anche Triennale lavora da anni su un network di conoscenze, poiché l’arte si nutre anche di altre discipline. A conferma di questa visione abbiamo intitolato la 23sima Triennale Internazionale Unknown Unknowns, ovvero Le cose che non sappiamo di non sapere».

 

La base del rapporto con gli artisti, soprattutto nell’aspetto della curatela, è fondata sull’incontro o può diventare anche uno scontro? E poi: un artista può anche essere un curatore, o sono due talenti che si autoescludono?

Quaroni: «È accaduto che un’artista sia stato occasionalmente un curatore e viceversa. tutto è possibile. Lo sguardo di un artista che si cala in un altro ruolo è per noi interessantissimo, perché ci spinge a esaminare un diverso punto di vista. Ma non funziona per tutti e non funziona sempre. Bisogna trovare il dialogo giusto». 

Baroncelli: «Sono d’accordo. Forse è più semplice che un artista diventi un curatore che il contrario». 

La triennale di Milano ha sede in un palazzo degli anni ’30, la Fondazione Cartier a Parigi è una specie di tempio trasparente che Jean Nouvel ha inventato attorno al famoso albero di Chateaubriand. Quanto è importante il “contenitore” nel vostro lavoro? 

Baroncelli: «Triennale e Fondazione Cartier hanno storie diverse, ma caratteri simili. Per esempio, sono entrambe ospitate in spazi importanti, monumentali, ma che hanno la capacità di scomparire in favore del contenuto. Un altro aspetto è il rapporto con l’esterno. Per molti anni le finestre della Triennale sono state murate per favorire la luce neutra, poi abbiamo riscoperto la luce naturale, il rapporto molto forte con gli alberi che entrano quasi nello spazio».

Quaroni: «Entrambi gli edifici hanno in comune il fatto di essere stati creati per l’arte contemporanea, quindi è un privilegio poter disporre di spazi concepiti per ospitare l’immaginazione artistica. Per la Fondazione Cartier è stato creato uno spazio flessibile, capace di accogliere qualsiasi tipo di arte che verrà. Il rapporto con l’architettura è molto importante per le opere. D’altra parte, ritengo che un’opera d’arte può esistere in qualsiasi contesto anche se non è uno spazio che è stato progettato per quello scopo».

Quanto è importante oggi il mecenatismo? C’è contrapposizione fra pubblico e privato?

Quaroni: «Storicamente ci sono sempre stati mecenati privati e pubblici e gli artisti hanno sempre avuto bisogno di entrambi. Sono entrambe grandi energie che in realtà non si contrappongono, ma si compensano».

Baroncelli: «Mecenatismo e arte, grazie a un rapporto storico, sono fondamentali. Noi abbiamo l’associazione degli Amici della Triennale di Milano, che fanno un lavoro straordinario: donano per il puro gusto di donare».   

 

Parlavamo prima di “cura”, che è una parola che vuol dire scelta, ma anche altro. È una parola spesso associata all’universo femminile. Voi siete due donne e siete nel settore della direzione artistica. C’è una componente del vostro mestiere che si associa maggiormente all’intuito o alle predisposizioni femminili, ammesso che esistano? E poi: vediamo meno artiste che artisti. È solo una questione di visibilità? 

Quaroni: «Queste predisposizioni femminili io non le ho mai incontrate, in nessun settore. Forse esistono, ma nel mio percorso professionale non le ho avvertite. Per quanto riguarda le artiste, in effetti, c’è storicamente una questione di visibilità. Ma all’interno della nostra programmazione il lavoro delle artiste salta fuori da solo, in un certo senso, e la mostra di Claudia Andujar che presenteremo alla Triennale per aprire questo partenariato lo dimostra».

Baroncelli: «Non credo esista una predisposizione femminile. In Italia abbiamo una rappresentanza importante di donne che guidano istituzioni culturali. Ci sono meno casi con un ruolo di direttore generale, ma forse perché una donna è più interessata ad altri aspetti, piuttosto che alla gestione del potere. Sicuramente oggi c’è ancora un tema di visibilità, ma il futuro non sarà permeato da questa discussione perché le generazioni più giovani sono sempre più fluide. La questione riguarda il come rappresentiamo le complessità di una società. Rispetto al mondo anglosassone, per esempio, siamo un po’ indietro, ma anche qui abbiamo preso coscienza che la complessità della composizione sociale è molto ampia e va considerata in ogni aspetto». 

Ancora a proposito di cura. La donna che è protagonista della mostra da cui partite ne è un esempio straordinario. Claudia Andujar ha una storia personale incredibile. Figlia di un ebreo morto nel campo di concentramento di Dachau, deve scappare negli Usa, dove ricostruisce la sua vita con un rifugiato spagnolo. Poi va in Brasile, e fotografando gli indios Yanomami scopre che il morbillo portato dai cercatori d’oro li ha decimati. La mostra è tragicamente attuale anche per quello che sta succedendo adesso a causa della pandemia da Covid-19. Perché questa mostra? Perché questa donna?

Quaroni: «È molto importante iniziare il nostro partenariato con questa mostra e con una personalità come Claudia per diverse ragioni. Abbiamo esposto il suo lavoro per la prima volta nel 2003. Questa mostra rappresenta alla perfezione la visione che la Fondazione Cartier porta avanti sul lungo termine, perché illustra gli aspetti principali della sua attività: quella artistica e quella sociale. Quella di Claudia è una vita dedicata all’attivismo e all’avventura. Una donna che ha sfidato tutto e che si è conquistata il rispetto per la sua arte».

Baroncelli: «Una forma di geocultura non geopolitica. È questo il tema della mostra, che unisce in maniera molto forte i valori delle due istituzioni. Inaugureremo contemporaneamente la mostra di Claudia Andujar con una su Enzo Mari, uno dei più importanti designer, dotato di grande coscienza critica». 

Quaroni: «Enzo Mari è stato anche protagonista di mostre alla Fondazione Cartier, a conferma che questo partenariato nasce su basi comuni molto solide e naturali».

Il vostro partenariato durerà otto anni. Ma come si svilupperà? Potete dirci qualcosa?

Quaroni: «La durata quasi decennale ci conduce oltre l’idea di un evento di passaggio. È qualcosa di solido e allo stesso tempo rappresenta sia il presente sia il futuro. Abbiamo bisogno di immaginare il domani, ma non abbiamo la pretesa di spingerci troppo lontano. Questi otto anni ci serviranno per riflettere sulle situazioni contemporanee, alcune delle quali ci sono cadute addosso senza che potessimo immaginarle. Nel contempo, potremo approfondire soggetti di cui già ci siamo occupati. Questi otto anni ci offrono un’occasione concreta di riflessione».

Baroncelli: «Da punto di vista pratico, la collaborazione si svilupperà all’interno di 1.600 metri quadrati di spazio espositivo all’interno della Triennale di Milano. Per la programmazione, avremo un comitato scientifico congiunto con la Fondazione Cartier». 

Quaroni: «Alcune mostre arriveranno direttamente dalla programmazione di Parigi, altre saranno concepite per gli spazi milanesi, ma potranno viaggiare altrove e allargare questo cerchio di geoculture di cui gli artisti sono portatori. Le formule per vivere insieme e continuare questa programmazione per otto anni saranno diversissime, attraverseranno probabilmente altre geografie, altri spazi, coinvolgeranno altre istituzioni. Ed è bellissimo non sapere ancora oggi cosa succederà, ma poterlo immaginare grazie a questo scambio di solide basi. Questa durata ci consente di lavorare sul presente e sul futuro senza darci un’ambizione eterna, ma con la possibilità di architettare una programmazione visionaria».

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