La creatività ha un potere terapeutico: permette di evadere dalla realtà, immaginare mondi nuovi, ritrovare la speranza in un momento di difficoltà, come quello che abbiamo vissuto a causa del Coronavirus. Nei mesi di lockdown, in tanti hanno scoperto (o rispolverato) i propri talenti, raccontando il periodo della quarantena attraverso illustrazioni, disegni, progetti (AD ne ha raccolti molti con la challenge #ADCreativeLockdown). Così è nato anche l’ultimo progetto di Moleskine, Color Your City: una collana di taccuini e di libri illustrati realizzati dall’architetto e illustratore Carlo Stanga, con protagoniste alcune delle più importanti città del mondo, una su tutte Milano: «Il ritorno della città, quindi di noi tutti, alla vita dopo il lockdown degli ultimi mesi, è l‘idea fondamentale che ha ispirato il progetto Color Your City – racconta il creativo ad AD -.  Collaboro da anni con Moleskine, e ho voluto rappresentarne l’identità  attraverso una città immaginaria che ne rispecchiasse tutte le caratteristiche essenziali. La metropoli Moleskine è una distesa urbana ecologica, dove si va in bicicletta, dove la carta è il materiale fondamentale e la ricchezza dei sentimenti umani, che animano la vita, viene espressa dai colori, che da un punto di vista psicologico esprimo proprio il sentire umano. I colori sono brillanti perché illuminati dalla luce della creatività, la capacità umana che ci ha sempre salvato durante l’intera nostra vicenda evolutiva. Ed è proprio la luce ad essere il tema, la chiave che spiega la città Moleskine. Si torna alla luce dopo i mesi cupi: illustrare significa, dal latino, illuminare e anche la fantasia, che accompagna sempre la mia matita, ha questa antica radice indoeuropea FES che significa chiaro, brillante, luminoso. Quindi la luce dà vita ai colori che descrivono i sentimenti,  recuperati e rielaborati, alla luce appunto, di una nuova visione delle cose nel mondo post-covid.

Come descriverebbe lo spirito di Milano catturato nel suo taccuino e nel libro illustrato I am the City?
«Immagino sempre le città come fossero persone. Pensi ad esempio agli aggettivi con cui ci riferiamo alle città, sono gli stessi che usiamo per le persone: una città bella, brutta, dotta, romantica, dura, aperta, alternativa, rivoluzionaria, trasgressiva, noiosa, borghese, triste, allegra, godereccia, eccetera eccetera… Così lo spirito di Milano, città in cui ho vissuto per 25 anni e che conosco bene, mi è sempre apparso quello di una donna, perché per me Milano è femminile, con un carattere molto volitivo e dinamico, un amore per la qualità, le cose ben fatte, e sempre rivolta al futuro. A volte forse un po‘ troppo autocelebrativa e egocentrica, spesso, ancora oggi, con complessi di inferiorità rispetto alle grandi “colleghe” europee , ma comunque sempre animata da uno spirito forte e indiscutibilmente originale».

Come è cambiata la città in questi mesi dal suo punto di vista?
«Non sono ancora tornato a Milano, e non l’ho vissuta direttamente durante il lockdown, non so quindi veramente come sia cambiata, immagino che si stia riprendendo dallo choc e sono certo, conoscendola, che il recupero sarà totale, anzi che la città alla fine sarà migliorata. Naturalmente durante la realizzazione del progetto Color Your City ho pensato molto anche a lei, Milano infatti è la sede dell’headquarter di Moleskine e rispecchia molti lati della sua personalità  creativa».

Dopo la laurea in progettazione e restauro architettonico al Politecnico di Milano ha abbandonato la carriera d’architetto per dedicarsi all’illustrazione. Cos’hanno in comune questi due mondi?
«Dopo la laurea ho subito iniziato a lavorare come architetto. Le cose andavano bene, ma il mio Daimon, come lo chiamavano gli antichi greci, cioè la mia vera passione, il disegno, mi tirava continuamente per la giacca. In realtà si era fatto vivo ben presto perché già all’età di due anni, quando non parlavo ancora, disegnavo streghe e elicotteri dappertutto, imbrattando muri, porte, eccetera. Comunque, mentre facevo l’architetto, parallelamente illustravo già e quando cominciai ad avere collaborazioni continuative con giornali importanti decisi di dedicarmi solo all‘illustrazione, abbandonando l‘architettura con tutti gli aspetti che di quella professione non mi piacevano, come le interminabili pratiche burocratiche!».

L’architettura è rimasta comunque un aspetto centrale nel suo lavoro. Perché disegna le città?
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Quando ho deciso di dare completamente retta al mio Daimon illustratore, era chiaro che non potevo abbandonare completamente quello dell’architettura, così ho creato una fusione di spiriti impertinenti facendo rivivere il mio amore per l‘architettura all’interno della passione per l‘illustrazione, con aggiunta di vari altri interessi come i viaggi, il design, il cinema, la scrittura, eccetera. Un lavoro a matrioska insomma, dove tante passioni si contengono una dentro l’altra. Disegno le città semplicemente perché mi piacciono. Si tratta cioè di un‘attrazione estetica per la realtà urbana, la sua complessità, la ricchezza di particolari, le storie che si incrociano, la velocità, il movimento. Raccontare le città vuol dire raccontare tutto, la storia, la società, le persone. Oggi poi le città sono protagoniste, dopo gli ultimi 150 anni in cui erano principalmente le nazioni a essere al centro della scena! Ed è proprio nelle città che si giocherà la partita futura dell’umanità. Il tema della sovrappopolazione, della sostenibilità, del climate change si concentrano qui».

Da un punto di vista tecnico, in che modo realizza le sue illustrazioni?
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Mi piace la contaminazione, che è tra l’altro una caratteristica delle grandi città, quindi amo combinare un procedimento manuale tradizionale, dallo schizzo a matita al ripasso a china, con quello digitale che vede la rielaborazione della parte analogica secondo una tecnica contemporanea. Amo molto tutto quello che è analogico, perché fa parte della mia giovinezza, sono del ’66. Così non dimentico il vinile e il suo profumo e gli scricchiolii irregolari che preannunciano l’inizio di un LP o i sussulti di un film in pellicola, le irregolarità del tratto a matita sulla carta ruvida o i giochi incontrollabili del colore che si espande nelle pennellate dell’acquerello. Amo un luogo speciale di Milano che è custode del mondo analogico, Bonvini 1909, in via Tagliamento 1. Lì puoi sperimentare il piacere sensoriale di sfogliare un libro nella libreria, di sporcarti le mani nell‘atelier della stamperia, di provare mille articoli nella cartoleria, di osservare direttamente tanti disegni originali e stampe fine art nella galleria, che tra l’altro rappresenta i miei lavori in esclusiva per l’italia e dove inaugureremo la mia prossima mostra a fine 2020. Il sentimento per il mondo  analogico non esclude la fascinazione per il mondo digitale. Così il mio mix tecnico ha completamente senso, pensando anche che, come dicevo, anche il mio lavoro si nutre già di una combinazione di diverse passioni a matrioska».

Crede nel potere terapeutico della creatività?
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Disegnare è già di per sé terapeutico. Quando si disegna, la realtà, anche con i suoi aspetti negativi, scompare e si entra in un flusso di pensieri in cui il tempo assume un valore completamente diverso, ci si trova in un altro mondo. Consideri poi che il significato etimologico di creatività corrisponde a “far crescere”, quindi è certamente una cura, perché ci arricchisce, ci cambia e ci permette di superare i periodi più critici».

In che modo?
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La creatività è una facoltà tipicamente umana, per cui si attiva quel processo di  illuminazione in cui si colgono corrispondenze tra cose che apparentemente non hanno nulla a che fare tra loro. È quindi uno strumento per affrontare i problemi, che ci aiuta in modo definitivo a risolverli e superarli. Non si pensi che la creatività sia una cosa un po’ leggera, propria di artisti che si inventano le cose più bizzarre; si tratta di un processo intuitivo  che coinvolge scienziati, medici, elettricisti, falegnami e fisici nucleari. Direi che si applica a tutto e vuol dire risolvere problemi creando qualcosa che prima non esisteva».

Cosa consiglia a chi vuole cimentarsi nell’illustrazione per raccontare il mondo che lo circonda?
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Il mio primo consiglio è di osservare molto, di leggere e di non frequentare una scuola di illustrazione (ops!) che spesso può rovinare la mano irreparabilmente. Meglio un buon liceo, qualcosa che crei una cultura di base, perché poi un illustratore deve lavorare molto sui contenuti, affrontando tutti i temi che gli vengono proposti con una certa sicurezza. Un  altro consiglio è di imparare l‘inglese, perché viviamo in un mondo globale, dove è questa la lingua per comunicare, oltre a quella delle immagini naturalmente, e poi… ah sì… disegnare, disegnare, disegnare!».

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