Territorial Agency: Oceans in Transformation
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Territorial Agency: Oceans in Transformation
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Territorial Agency: Oceans in Transformation

Per salvaguardare la vita degli oceani serve una rinnovata coscienza ecologica. A Venezia, sulla facciata dell’ex Chiesa di San Lorenzo, sede di Ocean Space, una sottile linea di luce segna l’innalzamento del livello del mare previsto per il prossimo secolo (+6 mm). È l’installazione “When above…”, incipit della mostra “Territorial Agency: Oceans in Transformation” (fino al 29/11), che ci invita a riflettere sugli oceani come componenti vitali del sistema terrestre.

L’oceano è un sensorio. Attraverso dinamiche complesse l’oceano registra le trasformazioni della Terra e inscrive i suoi cicli sui modelli comportamentali delle forme di vita. (Territorial Agency)

L’esposizione, a cura di Daniela Zyman, è frutto di una ricerca interdisciplinare di Territorial Agency, lo studio fondato dagli architetti John Palmesino e Ann-Sofi Rönnskog, in collaborazione con TBA21–Academy.
Nei rinnovati spazi dell’ex Chiesa di San Lorenzo (di cui si può ora ammirare l’altare restituito allo splendore originario) 30 grandi schermi mostrano immagini e dati provenienti da satelliti, boe galleggianti, GPS, intelligenza artificiale, scansioni sonar e modelli climatici delle interazioni tra mare, cielo e terra. Il risultato è un’immagine degli oceani articolata lungo sette traiettorie, che è insieme un contributo al dibattito sull’Antropocene e sugli spazi umani, le culture e le società all’interno di sistemi-mondo complessi.

«Le traiettorie rendono visibili le complesse interrelazioni tra diverse forme del sistema Terra e le molteplici forme di coabitazione umana. Nel loro percorso lungo il pianeta, mettono in luce la portata dell’attività umana sugli oceani», racconta Territorial Agency, organizzazione indipendente che nel suo lavoro unisce architettura, analisi territoriale e attivismo.
Come plasmare politiche e culture che possano coesistere con gli oceani? Come diventare sensibili a queste trasformazioni? A questo cerca di rispondere “Oceans in Transformations”, progetto corale che ha richiesto tre anni di ricerche.
In occasione dell’opening della mostra, abbiamo intervistato l’architetto John Palmesino, che insieme a Rönnskog è Unit Master (direttore di sezione) presso la AA Architectural Association School of Architecture di Londra.

Sei un architetto, con un background tradizionale, hai avuto modo di lavorare con Multiplicity all’inizio della tua carriera. Come sei arrivato a sposare un progetto multidisciplinare come questo? È curioso. Come è cambiata la professione di architetto?
«Tutto è cominciato con l’esperienza di Multiplicity, in compagnia di Stefano Boeri, Maddalena Bregani, Francesco Jodice, gli amici milanesi. Alla fine degli anni ’90 l’architettura era in una posizione strana: perché si costruiva tanto e nello stesso tempo si predicava, soprattutto in Italia, l’autonomia dell’architettura. Noi eravamo interessati a comprendere l’architettura come interfaccia fra lo spazio e la società, per usare un’espressione di Giancarlo De Carlo. Parlare di pratica architettonica implica investigare come lo spazio si trasforma. Così ho sviluppato  ricerche che mi hanno poi portato in Svizzera, a Basilea, a lavorare con Herzog & de Meuron, poi all’Istituto sulla città contemporanea, dov’ero direttore. Mi ha sempre interessato la magnitudine degli sviluppi, ovvero la costruzione dello spazio contemporaneo. Per questo abbiamo fondato Territorial Agency: per capire come l’analisi territoriale architettonica possa trasformarsi in una pratica di intervento, di trasformazione progettuale. Non nel senso di mastodontiche costruzioni ma utilizzando la professione di architetto per interfacciarsi con altre discipline, con un focus sulla trasformazione dello spazio. Quando abbiamo lavorato sull’Antropocene ci sono stati alcuni amici di Greenpeace che ci hanno chiesto come potevamo trasformare quella ricerca sull’impatto umano sul pianeta in un progetto per loro. Li abbiamo aiutati a spostarsi in direzione incentrata sull’analisi spaziale, territoriale. Poi c’è stato l’incontro con Francesca Thyssen-Bornemisza di TBA21-Academy, all’inaugurazione di una delle mostre del progetto con Greenpeace – Museum of Oil -, e Francesca e Marco ci hanno spinto a superare le solite analisi territoriali: ci hanno convinti a pensare all’oceano. Ne è nato un progetto basato su aspetti prima di tutto collaborativi…».

Sono sette le traiettorie prese in considerazione: ce n’è qualcuna a tuo avviso più significativa perché indaga più da vicino l’aspetto architettonico, e che, oltre al tema degli oceani, investe argomenti di attualità come l’architettura per le situazioni di emergenza, oppure i moduli nomadi alternativi? C’è qualche considerazione da fare in questo senso?
«Tutte le traiettorie sviluppano anche questi aspetti. Un esempio su tutti: la traiettoria incentrata su Venezia parte dal Mare del Nord, attraversa il continente europeo, le Alpi e arriva a Venezia, per poi continuare nell’Adriatico fino al Mar Rosso, all’oceano Indiano. Lungo questa traiettoria incontriamo una serie di questioni prettamente architettoniche e disciplinari. Una delle più affascinanti è forse la tradizione architettonica lungo quello spazio. Pensiamo all’architettura europea, alla sua impronta neoclassica: la riteniamo originaria di quello spazio che immaginiamo sia l’Europa. Lungo questa traiettoria si incontrano architetture simili, l’architettura orientale, gli spazi che un tempo erano quelli ecumenici delle città. Venezia è uno degli esempi più importanti di uno spazio imperniato sul mare, proprio dal punto di vista architettonico. Dovunque a Venezia si vedono continue commistioni (métissage) di forme architettoniche legate al mare. E questo è uno degli orientamenti, forse non così evidenti nella ricerca, che ci ha aiutato a pensare quali fossero gli aspetti culturali di lunga durata degli spazi architettonici. Dal punto di vista attuale gli stessi spazi sono ancora pensati come elementi di divisione, di separazione, e tutti sappiamo che questo è un pensiero di organizzazione spaziale. Da un lato l’Europa, dall’altro l’Africa, il Medio Oriente. Le conseguenze sono quelle che hai citato: l’architettura di emergenza».

In quale direzione stiamo andando?
«Non notiamo gli aspetti più intrinsecamente culturali dello spazio costruito. Un esempio: uno degli aspetti interessanti dell’architettura orientale è la cosiddetta purdah, la barriera, griglie, paramenti. Al contrario l’architettura europea è basata sulla prospettiva. Quando le due civiltà si incontrano da un lato gli europei hanno passaggio libero, per esempio attraverso l’aeroporto, i centri di scambio; gli altri, invece, devono attraversare una barriera. Naturalmente non sembrano barriere, non sono “viali prospettici”, ma le connotazioni spaziali sono le stesse. È un esempio della persistenza delle forme architettoniche, un aspetto caratteristico di questa traiettoria. Ce ne sono altri. In Asia nella costruzione delle città in pianura, a livello del mare, troviamo situazioni che dovranno cambiare completamente nei prossimi decenni…»

Quindi possiamo affermare che in progetti come questi la professione dell’architetto è cambiata completamente, si spinge in una direzione concettuale che investiga lo spazio, quasi una “de-materializzazione” dell’architettura come fatto in sé, non solo costruire ma parlare in relazione allo spazio costruito…
«Sì, è un aspetto molto importante. La pratica architettonica è diventata sempre più una pratica comunicativa. Ma quello che a noi interessa comprendere è l’aspetto materiale. Abbiamo calcolato quanto pesa la cosiddetta “città contemporanea”, con gli scienziati ne abbiamo fatto la caratterizzazione materiale: parliamo di una dimensione esorbitante, comparabile come magnitudo solo alla biomassa, a tutta la vita sulla Terra. Dobbiamo considerare tutto ciò che è vivente: solo così possiamo discutere le dimensioni della città globale contemporanea. La dimensione architettonica che abbiamo costruito è una separazione fra la vita umana e il resto del mondo. E uno degli spazi mentali difficili da superare è pensare che l’oceano sia uno spazio altro. In realtà è uno spazio completamente costruito, molto più separato delle città. È uno spazio di incapsulamento di vascelli che non si incontrano mai, popolati da una dimensione lavorativa che va dal lusso ai servizi, anche poco conosciuti. È un’architettura interessante, marittima, una delle quattro partizioni tradizionali dell’architettura. Civile, militare, sacra e marittima, appunto».

Cosa significa oggi svolgere la professione di architetto? Quali sono oggi le urgenze, le necessità? Tematiche ambientali? Antropocene? Com’è cambiata la professione?
«Dal punto di vista professionale o della cultura architettonica?»

Entrambi gli aspetti… È importante chiarire bene le due cose…
«Sì, sono strettamente correlate. Dobbiamo mutare completamente l’etica architettonica, trasformarla in una professione basata su un codice etico, di relazione contrattuale fra clienti. Dobbiamo includere in questa dimensione contrattuale la responsabilità del nostro impatto ecologico. Non possiamo pretendere che i nostri progetti siano sempre “innocenti”. Questo significa cambiare in maniera molto chiara le collaborazioni, i rapporti di potere fra le diverse parti contrattuali, tra gli ingegneri e gli architetti, anche in una dimensione ristretta, in piccoli progetti.

Dobbiamo essere chiari: tutto quello che facciamo deve essere reversibile

E questa “clausola” in un contratto di solito non c’è, perché si punta sulla durevolezza materiale. Certo, è difficile da comprendere, ma dobbiamo essere molto più leggeri e flessibili. Dal punto di vista culturale siamo in una situazione in cui l’estetica architettonica, soprattutto quella del Movimento Moderno, è basata sul cemento armato. Le Corbusier, Terragni, Nervi… è fantastico, un’architettura che amiamo, che ci ha formato. Il cemento è l’elemento principale di produzione della cappa di carbone fossile che distrugge il nostro pianeta. È difficile da capire, siamo così affascinati da questa dimensione estetica. Capire che tutto ciò spesso non funziona è difficilissimo. Dobbiamo ripensare la nostra storia dell’architettura, rivedere le scelte contemporanee, capire come possiamo correlarci a una dimensione culturale altra, più attuale».

Ti senti quindi più vicino a movimenti storici che hanno preso le distanze dal Movimento Moderno, quelli più concettuali come Internazionale Lettrista, psicogeografia, Internazionale Situazionista. Un nuovo modo di vivere la città, penso, in chiave più contemporanea, all’esperienza di Stalker…
«Modi altri di essere architetti… come quello del mio amico Lorenzo (Romito, tra gli iniziatori di Stalker, laboratorio di arte urbana, ndr). Giovanna Borasi, direttrice del Centro Canadese di Architettura ha sviluppato uno splendido progetto dove illustra i diversi modi fare architettura. Non dobbiamo dimenticare che questa modalità non è un’alternativa. È quello che l’architettura ha sempre fatto».

Non c’è contrapposizione?
«L’architettura in fondo è diventata quello che pensiamo sia sempre stata, creando troppo spesso protospazi civili, senza uno spazio autentico con il quale correlarsi. L’architettura è anche un intervento di percezione dello spazio. Può esprimere il cambiamento radicale di come le persone possono legarsi fra loro per collaborare. Tutti gli architetti, in fondo, amano il concetto di convivialità. L’architettura è creare spazi dove si può stare insieme. E questa è anche l’idea alla base del progetto sugli oceani. In modo un po’ concettuale, un po’ esoterico cerchiamo di mostrare come si può stare assieme. Questa è l’origine concettuale di Territorial Agency, che tu hai rintracciato molto chiaramente».

In questo senso ogni spazio può diventare oggetto d’indagine, anche gli oceani, non c’è più un limite, una sola dimensione. Un aspetto da approfondire.
«Siamo agli inizi, è un ruolo dell’architetto che è stato quasi dimenticato, ma siamo responsabili dal punto di vista civile della costruzione degli spazi di coabitazione. Spazi quasi sempre ereditati, la città contemporanea è stata costruita prima di noi, l’abitiamo, non possiamo trasformarla dal punto di vista materiale, cerchiamo di abitarla in modi migliori».

Con il progetto Oceans in Transformation, sviluppato con TBA21-Academy avete coinvolto scienziati, istituti di ricerca, organizzazioni intergovernative, studiosi, attivisti, legislatori, politici e artisti. È stato difficile lavorare con approccio così multidisciplinare?
«Il rischio più grande è l’assimilazione. È necessario, in un progetto architettonico, mantenere la chiarezza sui diversi ruoli. Nei nostri progetti sono proiettate le diverse concezioni spaziali dei collaboratori. In questo caso abbiamo lavorato con scienziati, attivisti, popolazioni indigene degli oceani, abbiamo accumulato immagini e le abbiamo mostrate loro dal nostro punto di vista. Vediamo cosa succede. Oceans in Transformation ha inoltre dato vita a un gruppo di ricercatori, “Ocean Fellows”, che ha contribuito ad ampliare la ricerca di Territorial Agency e TBA21–Academy, con un vasto programma di attività online, sviluppato durante i primi mesi di lockdown per la pandemia di Covid–19».

Torniamo all’aspetto concettuale del progetto. Come avete individuato le sette traiettorie?
«Siamo partiti da Venezia, naturalmente. L’idea iniziale parte dal suo duplice ruolo marittimo. Da una parte l’Adriatico, il Mediterraneo. Dall’altra una dimensione difficile da comprendere: oggi è sì una città importante, soprattutto nell’immaginario, ma in passato è stata il centro del mondo. Poi il centro del mondo si è spostato verso l’Atlantico, quindi abbiamo collegato Venezia ad Amsterdam, ad Anversa, Londra… spazi centrati sul cambiamento del mare. Siamo passati dalla lunga durata del Mediterraneo e del Medio Oriente agli imperi capitalistici di Londra, Bruges, Amsterdam, Anversa. Questa è la traiettoria. Un’altra traiettoria, invece, ha a che fare con il cambiamento del livello del mare. Seguiamo la costa asiatica, dove tutte le grandi città sono state costruite in aree dove è più evidente il mutamento del livello del mare. Alla fine del secolo Shanghai sarà completamente sommersa. È stato un fenomeno di prima urbanizzazione, la metà della popolazione vive nelle città, realizzando spesso tutto nei luoghi sbagliati. Abbiamo circa 30-35 anni per decarbonizzare la nostra società e ricostruire quelle zone. Negli ultimi 30 anni non ci abbiamo pensato. Adesso ne rimangono 30 per cambiare completamente quelle zone e trasformarle in foreste, luoghi dove ci sia acqua, acquitrini per tenere in sicurezza la costa.

Le traiettorie rendono visibili le interrelazioni tra diverse forme del sistema Terra e le forme di coabitazione umana. Nel loro percorso lungo il pianeta, mettono in luce la portata dell’attività umana sugli oceani.

Offrono uno sguardo momentaneo sulle relazioni degli esseri umani con gli oceani in trasformazione. E una premonizione sul futuro di queste relazioni».

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