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Ernesto Gismondi. Ph Courtesy Artemide

Per anni, non importava che in calendario ci fosse o meno l’Euroluce, la prima voce, le prime riflessioni sul Salone di Mobile che la stampa raccoglieva erano quelle dell’ingegner Ernesto Gismondi, puntuali alla conferenza stampa della “sua” Artemide, di prima mattina, il lunedì della fatidica settimana del design.
Previsioni, va detto, che venivano regolarmente confermate. Affollatissimi sempre quegli incontri spalla a spalla con giornalisti e designer, sia perché di novità l’azienda ne garantiva con assoluta certezza, sia perché gli interventi a ruota libera, vulcanici, del papà di Artemide, che aveva fondato nel 1959, erano, davvero, “illuminanti”. Tra slide di prodotto, dichiarazioni dei designer e dei commerciali, Gismondi disegnava i panorami presenti e futuri dei mercati, delle tendenze, ma anche di quanto, tema a lui carissimo, le innovazioni tecnologiche dovessero contribuire al benessere umano. In giro troverete una sua intervista dove diceva: «Non si vive di sole lampadine, ma si vive di innovazione, che non è solamente tecnologica, ma è specialmente innovazione di pensiero». Tutto chiaro perché, come confermava Carlotta de Bevilacqua, compagna nella vita e nel progetto: «I prodotti Artemide sono oggetti che nascono dall’esperienza degli uomini per i bisogni degli uomini».




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In 60 anni di attività, di esperienze con gli uomini (e le donne) che hanno disegnato, e continuano a farlo, i prodotti del catalogo Artemide, Gismondi ne aveva maturate tante, tutte importanti e ricche, sia nel lato umano sia in quello imprenditoriale. Dagli esordi con Sergio Mazza e la sua prima luce prodotta (Alfa, ovviamente), ai legami con Vico Magistretti, Enzo Mari, Gio Ponti, Livio Castiglioni, Gianfranco Frattini, Richard Sapper, Michele De Lucchi, Gae Aulenti e poi, negli anni Zaha Hadid, Herzog & De Meuron, Ross Lovegrove… Ci sono le firme di tutto il gotha del design nel catalogo Artemide. Prima con pseudonimo, poi in chiaro, ha spesso messo la sua anche l’ingegner Gismondi, che non aveva mai rinunciato al piacere del progetto: una via di fuga, diceva senza troppi giri di parole, dalle incessanti cure della gestione di una grande industria. Proprio una sua intuizione fu il tema di un’intervista-contributo che concesse a Casa Vogue, nell’aprile 2001. Vent’anni fa e, a proposito di sincronicità, che idea, ingegnere, questo suo accomiatarsi all’ultimo dell’anno, ma forse c’è un senso ricordando che arrivò di Natale, il 25 dicembre 1931.

Edoardo Gismondi e Carlotta Bevilacqua Ph Pierpaolo Ferrari
Edoardo Gismondi e Carlotta Bevilacqua Ph Pierpaolo Ferrari




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La storia che raccontò a Casa Vogue era quella di un insuccesso, di una applique già annunciata nel catalogo che però, titolammo, “non vide mai la luce”. Riletta oggi è tuttora vivissima e piena di quello spirito del pensare-fare che tanto segna il progetto italiano. Eccola. Buona lettura.

“Un tentativo, un’idea: una delle tante che ci sembrano stimolanti e sulle quali lavoriamo. Ruotando attorno a un asse centrale due dischi di lamiera forata appoggiati l’uno sull’altro, si  determina un gioco geometrico molto interessante: al posto di una superficie segnata da fori di due millimetri di diametro disposti regolarmente, si ottiene un effetto ottico costituito da figure diverse rispetto ai fori esistenti. Certo, nessuna novità rivoluzionaria, perché è in fondo il principio del caleidoscopio, ma questa possibilità di creare a ogni piccola rotazione una diversa immagine sembra accattivante. E allora decido di tentare di fare un oggetto, per esempio una lampada da parete. Le lamiere ruotanti proietteranno la luce diretta della lampadina, mentre di lato si otterrà anche luce sul muro. Successo: il prototipo funziona perfettamente. Facendo ruotare un disco sull’altro si ottengono textures sempre diverse. La rotazione deve comunque essere fatta a mano, dato che un movimento elettrico inciderebbe troppo sul costo finale. Bisogna quindi avvicinarsi alla lampada per ottenere un cambio di immagine. Ok, si fa il brevetto ornamentale che poi verrà depositato. E poi si valuta, presentando il prototipo a diverse giurie composte dagli agenti e dai rivenditori. La nostra nuova lampada si chiama Ecuba – come la moglie di Priamo re di Troia, lei che sognò una grande fiamma profetica delle future tragedie – ed è una delle novità Artemide 2000, ormai stampata in catalogo. Ma sono – siamo – veramente tutti convinti? Guardo in faccia i miei collaboratori; inutile negare: siamo soddisfatti al 50 per cento. Mi sembra, alla fine, che non serva molto cambiare la texture, perché la sostanza della lampada rimane identica. E devo confessare che non riesco proprio a immaginarmi qualcuno che si alzi dalla poltrona per andare a far fare dei nuovi quadratini alla sua lampada. Poi, la luce: esce solo radente e quindi mettere drammaticamente in risalto i difetti del muro. Infine, è poca! Proprio poca! Ecuba, addio!”

Articolo di Paolo Lavezzari

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