Baxter
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Nei giorni difficili del blocco vissuto nella sede di Lurago d’Erba, i manager Baxter Italia, capeggiati dall’amministratore delegato Paolo Bestetti, sono tornati a scuola. «Siamo coinvolti in dieci, incontriamo consulenti esterni e docenti che ci aiutano a perfezionare le dinamiche aziendali. Prima lezione: come comunicare più efficacemente in team».

A cinquantasei anni Bestetti guida un gruppo da cento dipendenti e cinquanta milioni di fatturato, che ha fatto dell’uso romantico e radicale della pelle il proprio tratto distintivo. Solo e unicamente cuoio primo fiore, il velo più superficiale e resistente, con i segni della vita a creare trame e smagliature naturali. «Usiamo tori provenienti dal Nord Europa, dove gli allevamenti sono più piccoli e i capi più sani. Il toro perché, non attraversando la gravidanza, mantiene le fibre esterne più compatte». Materia prima abbinata poi a quarzite, onice, resine, cemento e alla meraviglia lunare del cocciopesto, per complementi e divani che in alcune boutique monomarca arrivano a costare settantamila dollari.

Per quanto la designer Paola Navone, una delle firme più stabili del brand, spesso aiuti a ritrovare un sano senso del relativo. «Paola viene in azienda e passa ore col reparto produttivo, per immaginare e trovare soluzioni. Una volta mi ha trascinato in Tunisia solo per incontrare un maestro martellatore e portare in Baxter alcune tecniche di lavorazione. Ma poi mi riconduce sempre alla realtà: scendiamo dal pero caro Paolo, alla fine facciamo divanetti». Interiorizzati però lungo una vita intera a contatto con l’artigianalità e la bellezza. «In famiglia avevamo già fondato l’azienda Living Divani. Ricordo mio zio Luigi che da ragazzino mi faceva svegliare alle cinque del mattino per andare con lui in conceria: arrivavamo, trovavamo gli stabilimenti ancora chiusi, restavamo lì, fuori al freddo, e io non capivo il perché». Finché alla fine degli anni Ottanta è nata Baxter, con l’idea di portare il linguaggio della pelle a un livello di qualità superiore: «Per anni ho avuto un direttore di conceria che, quando Baxter era agli esordi, non mi dava retta, diceva che le mie idee non avrebbero funzionato. Oggi i suoi figli sono a capo del mio ufficio tecnico, e sviluppano ogni prodotto insieme a me». Storie di mani fini e di menti ostiche, scorbutiche ma tenaci, alla base di un familismo brianzolo che produce, resiste e funziona. E spesso ama complicarsi la vita: «Una delle sfide più recenti è stata la collezione outdoor realizzata in pelle. Abbiamo allargato le fibre del cuoio per permettere all’acqua di entrare e uscire naturalmente. Ci piace l’idea che pian piano si ingrigisca, come fa il legno».

In questo 2020 dal calendario stravolto, le idee Baxter però non si fermano: una nuova collezione con Christophe Delcourt, ispirata alle forme organiche della natura «perché hanno una relazione più vicina alla scultura e ci piace l’idea che un nostro oggetto, anche disgiunto dalla sua funzione, possa apparire un’opera d’arte». E poi ancora l’outdoor assieme a Roberto Lazzeroni, con l’uso del bambù e di un legno bruciato per donargli idrorepellenza, ispirato ai portoni sui canali di Venezia. E infine la riapertura del Baxter Bar di largo Augusto a Milano, che diventerà centro di studio e aggregazione, con una libreria del design dove sarà possibile fare ricerca. Un made in Italy radicale, nato da un piccolo errore che per fortuna non ne ha pregiudicato il successo. «L’abbiamo chiamata Baxter perché avevamo in testa l’Inghilterra. Poi però andavamo sui mercati e facevamo fatica: noi con gli inglesi non lavoriamo, ci rispondevano. Nascessimo oggi, di certo useremmo un nome italiano».

 

Intervista di Raffaele Panizza, pubblicata sul n. 463, AD aprile 2020

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