Ho abitato per cinque anni al ventiquattresimo piano della Torre Velasca. Prima che entrassi nell’appartamento c’erano i segni del tempo, di chi ci era passato e negli anni aveva fatto un po’ quello che aveva voluto senza probabilmente dare attenzione a quello che poteva rappresentare questo luogo.
Avevano dipinto i muri con tinte fluorescenti, ricoperto il pavimento con una moquette color polvere, rifatto i bagni con piastrelle floreali!
Ma nella Torre Velasca non si può e non si deve far nulla al di fuori di quello che fu fatto. L’architettura richiede il rispetto delle forme e dei materiali originali, per forza e senza la possibilità di alcun compromesso.
Il taglio dei muri degli appartamenti della Torre è molto specifico: i corridoi si aprono a imbuto verso le vetrate che si affacciano sulla città. Le altre partizioni interne sono «classiche». La cucina è sempre chiusa, piccola e passante, con due porte: una di entrata, una di uscita. Disimpegno per la notte. Camere ben divise e bagni uno per camera (assolutamente innovativo per l’epoca). Salotto con affaccio su una loggia con vista mozzafiato su Milano. La loggia è piastrellata di blu Cina, come se fosse una piscina senz’acqua, oppure in alcuni piani di verde acceso, come se fosse un prato. Il soffitto della loggia è dipinto color ruggine come l’esterno della Torre, per mimetizzare i vuoti della facciata.
I pavimenti interni sono tutti di legno e gli armadi a muro dipinti a smalto pennellato a mano di un color crema molto simile al bianco dei muri, ma un poco più intenso e in perfetta nuance. Tutto l’interno dei mobili, compresi i cassetti e i ripiani, è di mogano. All’esterno c’è soltanto un cenno alla ricchezza interna: due profili del legno prezioso che esce e contorna in maniera delicata le ante.
I bagni e la cucina hanno lo stesso pavimento delle logge (o blu o verde, a seconda dei piani), e invece a contrasto le superfici verticali evocano un rosa pallido che oggi chiameremmo «nude», in tesserine di mosaico prezioso. Le porte interne sono sempre dipinte come gli armadi a muro con gli stipiti di mogano. È la Torre. Elegantissima. Perfetta.
Poi ancora le finestre dei tagli di alluminio satinato, a ghigliottina, oppure di legno dipinto con tutte le maniglie in ottone: le maniglie Velasca disegnate ad hoc, ergonomiche a tal punto da non volerle più mollare una volta impugnate, di ottone naturale che con il passare del tempo sono sempre più belle grazie alla patina che le nobilita. Il mio spazio non era più esattamente così, come ho detto prima. La mia volontà e la mia unica determinazione erano quelle di riportarlo agli antichi splendori. Cancellare i segni delle mode e delle epoche e ridare gloria ai maestri del passato. Inoltre il vincolo della Soprintendenza alle Belle Arti impone ormai un restauro conservativo senza possibilità di contrattazione. Tale vincolo riguarda sia gli esterni sia gli interni, sia gli arredi fissi. Tutto congelato com’era, nel rispetto della bellezza.
Cosa fare quando entri qui? Niente, assolutamente niente. Godi dell’armonia di cui sei circondato sia dentro sia fuori. E basta. Così ho fatto. Ho solo portato degli arredi a cui sono affezionato, tutti entrati nella mia vita per casi strani e mai cercati, pezzi di storia, stratificazioni del tempo, memorie.
Nella Torre sta bene tutto.
Meno c’è, meglio è.
Ritrova questo articolo con le fotografie di Massimiliano Locatelli, Mattia Iotti e Luca Rotondo e il testo di Massimiliano Locatelli a pagina 158 di AD di dicembre.
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