Manca meno di un mese all’inaugurazione, da parte della National Gallery di Londra, della tanto attesa mostra su Artemisa Gentileschi, una delle più straordinarie pittrici del XVI e XVII secolo e un’icona femminista ampiamente acclamata negli ultimi tempi.
Dal 3 ottobre, chi avrà la fortuna di visitare la città britannica troverà questa magnifica mostra, che comprende non solo i suoi migliori dipinti, ma anche molte delle sue lettere e persino i verbali del processo per stupro che ha segnato la sua vita (e probabilmente la sua arte). Ecco il nostro omaggio in 5 motivi.
1. Per la sua enorme resilienza
Artemisia è nata a Roma nel 1593. Suo padre, Orazio Gentileschi, fu un artista di successo e le insegnò il mestiere fin dall’infanzia. Aveva tre fratelli, ma lei fu l’unica l’unica in famiglia a ereditare il talento paterno. Poiché all’epoca le donne non potevano studiare nelle accademie di belle arti della città, il padre le trovò un tutore, Agostino Tassi, che la violentò a 17 anni. In seguito cercò di sposarla per salvare il suo onore, secondo le usanze del tempo, ma era tutto un inganno. Tassi aveva una donna che, tra l’altro, aveva cercato di uccidere. Orazio lo portò in tribunale e durante i sette lunghi mesi di indagine, Artemisia dovette affrontare molte cose, tra cui la tortura, considerata l’unico modo per sapere se una donna dicesse la verità. Le strinsero le dita con le corde mentre lei ripeteva «È vero, è vero, è vero». Quello stesso anno o quello successivo, non si sa con esattezza, dipinse la prima versione di quella che per molti è la sua opera migliore, Giuditta che decapita Oloferne, interpretata da alcuni critici come una forma di vendetta pittorica nei confronti del suo aggressore.
2. Per la sua ricerca dell’indipendenza
Poco dopo che il suo stupratore fu condannato e bandito (bisognava provare che Artemisia fosse vergine e che questo Agostino fosse anche un ladro) Orazio la diede in moglie al secondo assistente della sua bottega, Pierantonio de Vicenzo Stiattesi, che, tra l’altro, aveva testimoniato contro di lei al processo. I due si trasferirono a Firenze nel 1613 e vi rimasero fino al 1620. Artemisia ebbe molto successo come pittrice di corte in quel periodo. Fu la prima donna ad entrare nella prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze e ricevette commissioni dal Granduca Cosimo II de’ Medici e da sua moglie Cristina. Fu amica personale di Galileo Galilei, con il quale si scrisse per anni, e in quel periodo dipinse alcune delle sue opere migliori, come l’Allegoria dell’Inclinazione per il nipote di Michelangelo Buonaroti e una seconda versione della sua Giuditta che uccide Oloferne. Ebbe quattro figli e una figlia, anche se solo quest’ultima raggiunse l’età adulta. Nel 1621 si separò dal marito e tornò a Roma come capofamiglia. Si ritiene che la separazione possa aver avuto a che fare con la sua relazione con un giovane patrizio, Francesco Maria Maringhi, o con i debiti che i due avevano accumulato nonostante le numerose commissioni. Da quel momento in poi ha lottato per essere sempre una donna indipendente. Ha avuto una seconda figlia, di cui non si conosce l’identità del padre.
3. Per le sue parole (scritte)
L’ultimo periodo della sua vita, la Gentileschi lo trascorse principalmente a Napoli, anche se è documentato che lavorò a Venezia e a Londra con il padre (qui su richiesta di re Carlo I d’Inghilterra, grande collezionista d’arte). Napoli divenne la sua seconda casa, fu molto ben accolta, lavorò senza sosta e riuscì a dipingere per la prima volta gli affreschi per il Duomo di Pozzuoli. Ricordiamoci che le pale d’altare e le grandi opere sono sempre state commissionate agli uomini, in fondo stiamo parlando del XVII secolo. In Gran Bretagna ha decorato il soffitto della Casa delle Delizie della Regina Enriquette Mary of France a Greenwich. Ma Artemisia era, oltre che una grande pittrice, una brava scrittrice che ha lasciato decine di lettere che sono conservate ancora oggi. Da queste sappiamo in parte che cosa pensava e come doveva difendere il suo lavoro contro i pregiudizi del tempo. Particolarmente interessanti sono quelle che ha indirizzato ad Antonio Ruffo. «Con me il tuo onore non perderai e troverai lo spirito di Cesare nell’anima di una donna», gli disse nel 1649, e anche: «Il nome di una donna può generare dubbi fino a quando non vedrai la sua opera».
4. Per le eroine dei suoi quadri
Per 40 anni l’artista ha dipinto temi storici e biblici senza sosta, con le donne come protagoniste nella maggior parte dei casi. Le sua Giuditta, Cleopatra, Lucrezia, Susanna o Danae sono forti, a volte violente, indipendenti, sicure di sé, sensuali. In realtà molte si ispirano a se stessa. Le sue caratteristiche fisiche sono chiaramente riconoscibili in molte delle sue opere. Ha anche disegnato molti autoritratti, non si sa se come forma di autopromozione o di autoaffermazione. È possibile che la rotondità dei suoi personaggi femminili, questa visione totalmente nuova (nella maggior parte dei casi accadeva con gli uomini) fosse ciò che cercavano i grandi collezionisti che glieli commissionarono. In una delle sue prime opere, Susanna e i vecchioni, che ha dipinto a soli 17 anni e che ha poi riprodotto in altre occasioni, la protagonista non si offre agli uomini, ma li rifiuta con disgusto, forse un riflesso di ciò che lei stessa ha vissuto durante l’adolescenza e la giovinezza.
5. Per la rivendicazione della sua figura 4 secoli dopo
Sebbene in vita fosse stata un’artista rinomata e di successo, dopo la sua morte (che si pensa sia stata causata dalla peste che nel 1656 spazzò via metà della popolazione della città) fu dimenticata e sepolta dai libri di storia per 400 anni. Fino a quando il critico d’arte italiano Roberto Longhi la riscoprì all’inizio del XX secolo come uno dei più importanti pittori dell’orbita caravaggesca. E la moglie di Longhi, la scrittrice Anna Banti, è stata la prima a pubblicare un romanzo storico a lei dedicato nel 1947, che ora è stato ristampato. Negli ultimi anni l’interesse per la Gentileschi è cresciuto e la mostra di quest’autunno alla National Gallery lo conferma. «È una figura ispiratrice di resilienza e di creatività senza limiti (…) Mi auguro che la mostra rifletta le sue conquiste artistiche e che i visitatori possano apprezzare il talento di questa donna straordinaria», dice Letizia Treves, curatrice della mostra. Così sia.
Articolo originale di Itziar Narro pubblicato su AD Spagna
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