Ha da pochi giorni inaugurato negli spazi in viale Lombardia della Galleria Massimo De Carlo, una mostra che scaturisce dai tempi che viviamo e dalle riflessioni sul ruolo del corpo in queste nostre giornate di semi-isolamento. Bodywork: Discomfort and Existence è il titolo della collettiva che prova a mappare l’attuale disagio esistenziale, e com’è cambiato nell’ultimo anno il nostro stile di vita, il modo in cui guardiamo a noi stessi, e lo spazio che il nostro corpo occupa.
Attraversando le meravigliose stanze della galleria, progettate da Portaluppi, lo spettatore viene stimolato alla riflessione sul ruolo che il corpo ha come oggetto di analisi e strumento per comprendere strutture di potere e relazioni sociali. Bodywork: Discomfort and Existence, vede esposto il lavoro di artisti contemporanei quali Shannon Cartier Lucy, Jordan Casteel, Aaron Garber-Maikovska, Sayre Gomez, Johannes Kahrs, Kathleen Ryan e Kaari Upson, accostato da opere su carta realizzate da Carol Rama tra gli anni Sessanta e Ottanta, e importanti opere video di Bruce Nauman e dalla coreografa Pina Bausch. Video e danza hanno una posizione centrale nella mostra riportando l’attenzione sull’effimero, la mortalità e l’interferenza fra le varie discipline culturali.
Negli anni Sessanta gli artisti iniziarono a rifiutare i limiti stabiliti dalle diverse aree artistiche; il teatro, le cosiddette arti visive, la pittura e la scultura furono destituiti delle loro funzioni tradizionali da numerosi artisti che iniziarono a utilizzare il corpo quale principale strumento di lavoro. Tra questi, Bruce Nauman usava il proprio corpo e la propria fisicità per esplorare i limiti delle condizioni di vita quotidiane, e trasformò il video nel suo palcoscenico teatrale e dispositivo di sorveglianza ideali. In Wall/Floor Positions (1968), Nauman utilizza il suo corpo per esplorare lo spazio del suo studio, trasformandosi in una sorta di metro umano per indagare e misurare le dimensioni dello spazio circostante. Allo stesso modo, Pina Bausch esplora i limiti della materialità e della fisicità corporea. Nell’estratto in mostra da Un jour pina a demandé, diretto da Chantal Akerman nel 1983, due ballerini, per mezzo dei loro corpi e dei loro movimenti, uniscono ripetutamente dimensioni inconciliabili e disfano stereotipi corporei e sessuali, e ruoli di genere. Con il suo Tanztheater, la coreografa tedesca genera nuovi modi di pensare lo spazio, il tempo e il movimento, attraverso un linguaggio ibrido che mette in scena interazioni sociali e i traumi psicologici che ne derivano.
Gli eventi del corpo, trattati in base alle diverse sensibilità e idee, sono al centro del lavoro degli altri artisti in mostra. Aaron Garber-Maikovska concepisce le sue opere come un sistema di documentazione per la memoria muscolare. Kaari Upson, che presenta in mostra due busti femminili, invece afferma: «Il corpo e le macchie sono sempre presenti nel mio lavoro». Un tema centrale del lavoro di Johannes Kahrs è la rappresentazione del corpo umano, in Untitled (pink nude) (2013), la corporalità è sezionata con cura feticista, e la frammentazione del corpo sfida la nostra capacità di osservare, mettendo in discussione la realtà rivelandone la fisicità, la perturbazione e la sensualità violenta.
Shannon Cartier Lucy, Jordan Casteel e Kathleen Ryan esplorano il concetto di corpo attraverso diversi media e stili. Le sculture di Ryan hanno una fisicità dirompente, realizzate con svariati oggetti recuperati e resi spettacolari, spesso in contrasto con i soggetti che rappresentano: un limone dai lineamenti candidi e leggeri è realizzato con pietre pesanti, marmo e rocce ruvide, diventando un’allegoria del ciclo della vita. Attraverso i loro dipinti, Cartier Lucy e Casteel esprimono i diversi modi del vivere sociale: la limpida e malinconica realtà domestica di Cartier Lucy contrasta con i ritratti a grandezza naturale di Casteel, che fonda la sua pratica nell’impegno comunitario. Il senso di solitudine e nostalgia che caratterizza l’opera di Cartier Lucy si ritrova anche nell’opera di Sayre Gomez, la cui anta chiusa trompe-l’oeil diventa metafora di distanza e immobilità in contrasto con la sua superficie tangibile, quasi palpabile.
Infine, le cupe composizioni su carta di Carol Rama mostrano ritratti disturbati del corpo umano capaci di sprigionare un’energia frenetica. Liberati da norme e preconcetti culturali, i corpi storpiati e deformi ci invitano a riconsiderare l’idea di bellezza delle forme maschili e femminili. Una mostra da non perdere per trovare nuovi spunti di riflessione su quello che ci sta accadendo. Fino al 17 aprile, visitabile su appuntamento, nella sede Lombardia della Galleria Massimo De Carlo.
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