Francois Halard
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François Halard da quarant’anni è specializzato nel ritrarre case e studi d’artista in giro per il mondo. Cerca di scovare l’anima dei fortunati abitanti, vivi o defunti, le loro tracce in spazi peculiari (grandiosi o modesti, spesso sgarrupati e rovinosi). Da Louise Bourgeois a New York a Eileen Gray a Roquebrune, oppure da qualche primario stilista, Halard non smette di indagare la planimetria spirituale del Novecento, passando possibilmente da artisti che in qualche modo l’hanno toccato. Tutto è partito da Cy Twombly, leggendario pittore americano di stanza in Italia nel dopoguerra diventato poi una specie di nume tutelare per Halard, una guida verso uno dei territori che più l’hanno ispirato. «Twombly mi ha sempre interessato a diversi livelli», dice Halard al telefono dalla Provenza. «Sua era la prima opera d’arte che comprai a venticinque anni. Una litografia. È sempre stato per me qualcuno legato allo stesso tempo alla pittura, alla fotografia, all’architettura e all’interior decoration. E poi la sensibilità per Roma, le rovine, Piranesi, tutto quel vocabolario visuale che mi ha sempre ispirato, che riconosco in lui, quel modo di rapportarsi all’antichità e trasformarla in qualcosa di molto contemporaneo. Da adolescente vidi le fotografie di casa sua fatte da Horst P. Horst sul Vogue americano del 1966 e rimasi folgorato». Il corteggiamento con l’artista fu lungo: «Riuscii ad andare a Gaeta, al suo studio, solo vent’anni dopo».

François Halard, la Cupola di Antonioni, 2020

Colossale viaggiatore, Halard adesso è fermo, come tutti. Le manca spostarsi? «Ma oggi viaggio molto in casa mia, guardando le mie foto, i miei libri sul Vaticano, sulle rovine romane di Balbec, di cui ho appena finito un lavoro». Dal suo viaggio da fermo è uscito anche François Halard – 56 Days in Arles, uno dei suoi ultimi progetti, cinquantasei Polaroid scattate nel suo hôtel particulier settecentesco, un palazzetto grandioso e franante nella città provenzale, ventidue stanze comprate negli anni Novanta con un bagno ispirato a Matisse e una terrazza molto gattopardesca. «L’ispirazione per questo progetto», dice, «mi è venuta dalle Polaroid che proprio Cy Twombly fece a casa sua a Roma». L’Italia, nel suo continuo ondeggiare tra arcaico e moderno, è centrale nell’universo di Halard. Che ha sempre bisogno di un filo conduttore artistico o letterario. Tappa fondamentale, casa Malaparte. Di cui ha scattato gli interni, quando ancora la villa non era stata restaurata dalla famiglia dello scrittore. Come era finito a Capri? «Malaparte era l’autore preferito di mia madre. E sapevo a memoria Le Mépris, Il disprezzo, di Godard… poi scoprii Capri grazie a Beatrice Monti della Corte e Grisha», cioè il mitologico Gregor von Rezzori: la mecenatessa bresciana-newyorchese e lo scrittore mitteleuropeo amici e mentori di Bruce Chatwin. E infatti Halard ha viaggiato molto con lo scrittore inglese: e gli ha fatto una foto celebre nel suo appartamento londinese. Lì lui è seduto alla sua scrivania, di spalle. Gli piaceva farsi fotografare, a Chatwin? «Gli piaceva talmente che lo dovetti prendere di spalle», ride Halard, e questo forse conferma la diceria su Chatwin, che pur essendo un osservatore implacabile – o forse proprio per questo – aveva un rapporto molto cauto con la macchina fotografica, come se davvero rischiasse di rubarti l’anima. Non veniva nemmeno molto bene nelle fotografie. E non si fotografava mai, pur non mancandogli, diciamo, l’amor di sé. Quali altri fotografi l’hanno influenzata? «Ghirri per il suo punto di vista sul colore e sul paesaggio italiano; e poi Ugo Mulas per i suoi ritratti intimi d’artista; e poi ancora Twombly come sublimazione estetica del suo intimo; e Mollino, per la sua visione erotica del design».

François Halard, 56 Days in Arles (2020, Libraryman): una delle 56 Polaroid che Halard ha scattato durante il lockdown nel suo hôtel particulier settecentesco.

C’è sempre molta Italia nei suoi riferimenti. Halard fin da giovane ha avuto un rapporto privilegiato con il nostro Paese. «Mia madre lavorava nel settore dell’arredamento e amava moltissimo il design italiano. Credo che sia stata una delle prime a comprarlo. E io credo di aver assorbito questo gusto. A diciott’anni chiesi ai miei di lasciarmi andare a vedere il Salone del Mobile a Milano. Era la prima volta che esponevano quelli di Alchimia. Certo era un po’ strano, normalmente i ragazzi chiedono una moto, o una giacca. Io invece volevo una scrivania di Superstudio. O una poltrona di Giuseppe Terragni». I suoi preferiti in assoluto? «Carlo Scarpa, Terragni e Sottsass. Ah, e anche Carlo Mollino, che adoro». Un’altra figura che ha seguito a lungo. «Mi colpiva il suo rapporto tra l’architettura, l’oggetto e la fotografia. Anche lui faceva Polaroid. Erotiche». Ne ha fotografato l’appartamento torinese. In un’intervista Halard ha detto: «Mi piaceva che fosse concepito solo per ospitare attraenti illusioni erotiche, mentre viveva a casa di sua madre. Era interessato a Piranesi e ai giardini giapponesi, e intanto disegnava la biancheria intima, le scarpe e ogni dettaglio degli abiti indossati dalle sue modelle. Non ho mai capito se avesse o meno una relazione sessuale poi con quelle belle ragazze». A proposito di ragazze, lei ha cominciato con la moda. «No, veramente ho cominciato con l’architettura, poi sono passato alla moda per un po’, poi sono tornato al vecchio amore. Mi mancava uno spazio personale mio per esprimermi, con la moda». Forse è più facile fare foto a una casa piuttosto che alle persone. «Più che facile è più assoluto, e poi posso fare tutto da solo, non c’è bisogno del truccatore, degli stylist». Ho letto che era anche timido. Per questo è tornato alle case? «No, caro amico. Proprio il contrario. Lavorai nella moda proprio per via della timidezza. Così ero costretto a vincerla, in quei contesti pieni di gente, con la musica, tutte quelle persone sul set. Ma mi è servito molto, sa; in mezzo a tutto quel caos eri costretto a ricavarti un piccolo spazietto dietro la tua macchina fotografica. E oggi non sarei così libero se non avessi fatto quel lavoro nella moda». Grazie alla moda poi ha conosciuto i grandi stilisti, di cui ha fotografato le case. Yves Saint Laurent, Marc Jacobs, Roger Vivier, un po’ tutti. «E negli anni Ottanta l’appartamento di Montecarlo di Karl Lagerfeld, interamente arredato Memphis». La più bella? «Quella di Dries van Noten, un palazzo antico affacciato su un lago in Belgio». E però non c’è niente da fare, «le case d’artista sono diverse. Le loro tracce sono più visibili, vedi di più dentro di loro. Le case di Mollino, di Malaparte, di Louise Bourgeois… sono proprio a un altro livello», dice. «Cerco sempre di fotografare case o atelier di artisti che mi hanno toccato profondamente. Se non riesco, mi accontento di un contatto di secondo grado. Per esempio, amando io molto Matisse, ma essendo naturalmente troppo giovane per averlo conosciuto, ho comunque molte fotografie del suo studio fatte da fotografi dell’epoca. Lo stesso per l’atelier di Picasso. Mi piace avere delle foto di qualcosa che avrei voluto fotografare io. Per esempio le foto di Picasso nel suo studio fatte da Alexander Liberman». Ma c’è sempre questa relazione tra casa e autore? Oppure nella sua carriera ha incontrato persone banali con case pazzesche o viceversa? «Ah, sì, spesso», ride, ma meglio non fare nomi. E la casa d’artista più bella mai fotografata? «Malaparte a Capri. E la Cupola di Antonioni e Monica Vitti in Sardegna. Oggi abbandonata, opera di Dante Bini, che aveva inventato un sistema rivoluzionario per fare enormi monoblocchi in cemento armato, come questo della Cupola. C’è un rapporto tra le due case: non solo sono entrambe collegate a due registi che amavo molto, Godard e Antonioni; ma c’è anche lo stesso rapporto con la natura, col mare, col Mediterraneo. Tra spazio interno ed esterno. Io il Mediterraneo l’ho scoperto molto tardi, ma il senso di appartenenza a questo spazio, a questa dimensione, l’ho capito subito». Ma se ama così tanto l’Italia, che ci sta a fare in Provenza? «Ma guardi che Arles è molto italiana. È una città decisamente non francese. La chiamavano la piccola Roma».

Scoprite tutte le foto di François Halard nel servizio a pagina 196 di AD di Aprile.

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